Seconda
puntata sui miei album d'esordio preferiti, decade per decade.
I 70s vedono
il grande successo fra gli altri di generi musicali come la Disco/Dance, di cui
il film Saturday Night Fever del
1977, con alcuni dei brani più noti dei Bee Gees e le evoluzioni sulla pista di
Tony Manero/John Travolta, è un po' l’emblema.
Ma è anche
il decennio, complice/causa il particolare momento socio-politico, in cui “esplode”
il fenomeno Punk. Anno fondamentale è ancora il '77 con l’uscita in Inghilterra di
Nevermind The Bollocks dei Sex
Pistols e il primo omonimo album dei The Clash. Mentre negli States escono Leave Home e Rocket To Russia dei newyorkesi Ramones, il cui esordio (contenente
il cult Blitzkrieg Bop) risale all’anno prima.
Di tutto
questo però, ve lo dico subito, per stilare questa Top 5 ci interessa ben poco.
Perché rimanendo sul sentiero tracciato con il precedente post sugli anni ’60 è
ancora il rock ad essere protagonista.
Ma bisognava pur fare qualche preambolo...
Pronti per
iniziare? Ecco i 5 nomi che hanno superato il fuoco di sbarramento e sono
arrivati a giocarsi le posizioni che contano (esticazzi, no?):
5) Boston (1976)
Navi spaziali dalla forma di chitarre. LOL |
La
carrellata incomincia con un album del 1976 Made in USA realizzato dai Boston,
band almeno in Italia non particolarmente conosciuta.
A proposito
di notorietà il disco parte subito fortissimo con la loro canzone probabilmente
più famosa, quella More Than A Feeling che sicuramente avrete sentito da qualche
parte: in radio, in qualche spot pubblicitario, in un film o giocando a Guitar
Hero.
Vengono subito
fuori alcune delle caratteristiche principali dell’album: sonorità orecchiabili,
parti strumentali ben piazzate e la gran voce di Brad Delp (Brevissima
digressione personale. Ricordo quando avevo sentito la notizia della sua morte.
Mi pareva abbastanza recente e invece si parla del 2007, quasi 6 anni fa.)
La voce dona
alla canzone quel tocco delicato, in particolare nelle strofe, per poi salire in
alto per richiamare gli strumenti al lato più rock: dalla batteria, al riff nel
ritornello fino all’assolo a metà del brano.
In
particolare alla fine della terza strofa e alla fine dell’ultimo ritornello
Delp tira fuori dei discreti acuti…
Alla fine More Than A Feeling non può non entrarti
in testa. Roba che se ti parte in macchina… beh il “MoDENA FIIIILIN” con
coretto un po’ gaio ci scappa.
Il testo si
riferisce a quella sensazione che è in grado di trasmettere la musica, sia per
distaccarci dal mondo o per far tornare alla memoria ricordi e volti. So che
anche a voi sarà capitato.
Primo
singolo rilasciato dalla band è quello che trascinerà le vendite del disco fino
a renderlo uno dei debut album più venduti di sempre negli States, con più di
17 milioni di copie vendute.
Nel
preparare questa classifica, oltre a riascoltarmi un po’ gli album, mi sono anche
dedicato a qualche lettura di approfondimento ed in particolare ho trovato
interessante la storia della produzione di Boston.
La mente da
cui nasce la band è quella di Tom Scholz, ragazzo laureato al MIT e al tempo
impiegato alla Polaroid, appassionato di strumenti tecnologici e affini. Inizia
a dedicarsi alla musica da autodidatta suonando chitarra ed altri strumenti
fino a rispondere all’annuncio di un gruppo alla ricerca di un tastierista,
andandosi così a unire al chitarrista Goadreau, il batterista Masdea e
successivamente Delp.
Scholz
registra con la band alcuni demo direttamente nel suo studio “fatto in casa”
(con parte della strumentazione da lui stesso creata) rimanendo molto
soddisfatto del risultato finale e attira l’attenzione della Epic Records che
propone ai Boston di registrare in uno studio professionale … salvo che poi Scholz
in qualche modo ci mette ancora mano nel suo studio fino ad ottenere il
risultato finale che possiamo ascoltare.
Alla fine
sull’album ci ritroviamo con Sib Hashian alla batteria (preferito dalla Epic a
Masdea, che suona solo in una traccia), Delp nel ruolo di cantante e
chitarrista e uno Scholz tuttofare con chitarre, tastiere e basso.
Goudreau e
il bassista Fran Sheehan accreditati su un paio di brani.
Ma torniamo
al disco. Subito dopo la trascinante opener abbiamo Peace Of Mind, che si
mantiene sulla falsariga di More Than A
Feeling, ma con più brio.
Alla breve
apertura acustica si sovrappongono subito chitarra elettrica e batteria. Un bel
riff introduce quindi Delp, probabilmente qui alla miglior performance vocale
sul disco. Anche qui ritornello che prende subito. La parte strumentale a metà
pezzo non è affatto male, con una batteria figa e le chitarre ad assoleggiare.
Così come la coda dopo quell’ultimo “Take a look ahead. Look aheaaaaad!”…
batteria, voci che si abbassano. Stop (che come dice un mio amico le pause sono
molto importanti. Ah lo sai?). E via a ripartire con una serie di riff ed un
assolo che chiude in fading la canzone.
Un gran bel
pezzo.
Foreplay/Longtime
è la traccia più lunga dell’album con i suoi quasi 8 minuti, anche se si
potrebbe considerare come suggerisce il titolo stesso un brano diviso in due.
La prima volta che l’ho sentita è stata durante una partita a uno dei Guitar
Hero, in cui è presente per intero… ed è anche assai divertente da fare.
Foreplay è l’intro strumentale dove Scholz
alle tastiere (organo?) fa la sua bella figura, ben coadiuvato dalla chitarra e
da un drumming furioso. Dopo un’ondata di suono ed alcuni secondi di calma si
parte con Longtime ed arriva anche Delp, per un pezzo in cui si alternano alla
grande intermezzi strumentali e parti cantate.
Segue Rock And
Roll Band, che potremmo definire come una sorta di inno per le band
emergenti.
E’ un brano
scanzonato in cui ad ogni strofa Delp “racconta” alcune delle tappe di molti
gruppi: Una qualsiasi band venuta fuori da Boston, che suona nei bar e dorme in
auto, senza soldi ma sempre pronta a dare il massimo sul palco. L’inizio della
notorietà senza preoccupazioni per quello che ci si è lasciati alle spalle. Fino
alla proposta di un contratto discografico da un uomo in Cadillac con un grosso
sigaro.
Pezzo breve
e abbastanza lineare, con giusto un paio di brevi assoli. Molto bello l’attacco
del ritornello, che anche in questo caso fa subito presa, e un Brad Delp che
“impazzisce” nell’ultima strofa.
La traccia
numero 5 si chiama Smokin’, scritta dal tandem Scholz-Delp, ed è un brano veloce
che per me ha un po’ il gusto di Deep Purple, in particolare per la parte di
tastiera centrale che mi ha ricordato Highway Star (con le dovute proporzioni).
Voce e batteria continuano a dire la loro.
Dopo un paio
di pezzi come Rock And Roll Band e Smokin’ il ritmo cala, ma solo apparentemente,
con Hitch
A Ride. L’inizio è tranquillo e cullato dalla voce di Delp in cui quasi
stona (ma anche no) la presenza della batteria… improvvisamente dopo 1 minuto e
mezzo irrompe prepotente Scholz facendo volare le dita sulla tastiera e il
ritmo cambia completamente. Dopo un breve intervento chitarristico sembra di tornare
sui binari iniziali… almeno fino al lungo guitar solo che si protrae fino al
termine della canzone. Not bad.
Dopo qualche
secondo in sordina parte con un “riff molto gay” (cit.) Something About You, mid
tempo orecchiabile (ma ormai ci siamo abituati, no?)il cui testo parla di un
giovane che vuole rivelare i propri sentimenti a una ragazza. “Like a man made of stone. But there’s
something about you” , per I duri dal cuore tenero.
Siamo
arrivati alla fine, con la traccia n°8 Let Me Take You Home Tonight in cui
troviamo anche Goudreau e Fran Sheehan al basso (con quel cognome…). Ballad che
è probabilmente il brano che mi ha colpito meno dell’album, pur avendo alcune
cose interessanti come le primissime battute con un retrogusto … mmm… Yes, mi
viene da dire. E l’accelerata finale con un coretto ad accompagnare uno
scatenato Delp. Dissolvenza. Fine.
Riascoltandolo
ho maggiormente fatto caso alle parti di batteria che mi sono piaciute
parecchio e, ovviamente all’ugola d’oro che aveva quel tizio che ci pronunci
nome e cognome con due sillabe.
Inoltre ci
sono tutta una serie di caratteristiche che sicuramente hanno influenzato varie
band del panorama Rock/AOR americano che tanto mi piacciono, dai Journey ai
Survivor, ecc.
Sicuramente
dedicherò un po’ di tempo anche a qualcuno dei brani della loro breve
discografia.
Segue video con Brad "Ras del quartiere" Delp...
Cover semplice con la foto dei 4 della band in pose da bulli. |
“I
Van Halen. La prima sega. La
vicina di casa, un travestito ai più noto come Lola che mia madre chiamava
Antonio con nostro sommo sbigottimento” dicevano gli Offlaga Disco Pax nel
2005.
Lasciamo
stare tutta quella triste storia sul Toblerone (-qualcuno sa perché-) e
concentriamoci sul gruppo americano che nel 1978 sforna il suo disco d’esordio che
metto qui in quarta posizione, i Van Halen, appunto.
Da Boston, Massachusetts
facciamo un doppio volo intercontinentale sopra l’Atlantico.
Prima tappa
nel paese dei tulipani, dei mulini a vento e degli zoccoli di legno, l’Olanda
(no, non l’Italia, che al massimo di legno ci sono le zoccole). E’ qui che
nascono i fratelli Van Halen, non proprio un tipico cognome americano in
effetti, nella prima metà degli anni ’50.
Seconda
tappa sulla West Coast dove la famiglia dei giovani Edward “Eddie” ed Alexander
“Alex” emigra nei primi anni ‘60.
Inizialmente
Eddie si era dato alla batteria ed il fratello maggiore alla chitarra, ma ben
presto la vocazione del primo li ha portati a scambiarsi gli strumenti. Dite
che è andata bene così?
Negli anni
’70 i due fratelli fondano il gruppo che porta il loro nome, insieme al
bassista Michael Anthony e al cantante e frontman David Lee Roth.
Van Halen, l’album, si apre con Runnin'
With The Devil. Faccio subito una premessa, sebbene sia pur bravo
non sono un grande estimatore del David Lee Roth cantante… non sono mai molto
bravo nello spiegarlo ma il suo stile lo trovo, come mi piace dire, un po’
“teatrale”… mi pare di ascoltare certi musical in cui i personaggi sembrano
quasi che stiano parlando anziché cantando. O almeno questa è l’impressione che
mi ha dato ascoltando alcune delle canzoni col gruppo. Insomma… è tutta
un’altra roba rispetto a Brad Delp di cui scrivevo poco sopra e dovendo
scegliere come cantante nel senso stretto del termine gli preferisco Sammy
Hagar, suo successore quando abbandonò la band per dedicarsi alla carriera
solista (oltretutto riunendo insieme gente come Steve Vai, Billy Sheehan e
Gregg Bissonette). Che poi fosse un gran frontman/showman è un altro discorso.
Questa cosa
di Diamond Dave penso venga abbastanza fuori proprio nell’opener del disco,
dove dona al pezzo quel suo ritmo non troppo veloce, appoggiato nel ritornello
dalle azzeccate backing vocals. Alex e Michael Anthony costanti per tutto il
pezzo. Ma la cosa che balza subito all’orecchio è sicuramente la chitarra sia
per graffiante riff iniziale che per quanto riguarda, soprattutto direi, la
parte ritmica. I due brevi assoli non sono certo memorabili, e ancora non rendono
l’idea di quanto ci aspetta dopo. Nel complesso un buon pezzo.
A seguire
EVH lascia il suo biglietto da visita all’ascoltatore … e al mondo dell’hard
rock e della sei corde. Solo immaginate che questo biglietto ve lo scagli
contro Gambit, quello degli X-Men.
Perché Eruption,
un branetto di un un minuto e 42 secondi, dopo i primissimi secondi di batteria
non è altro che un compendio ultraconcentrato del Van Halen chitarrista e di un
certo modo di suonare lo strumento, reso famoso in particolare per l’uso del
tapping.
Adesso, io
non sono un esperto in materia anzi diciamo che sono abbastanza ignorante in
tema di teoria (e pratica) della chitarra e della sua evoluzione, ma posso
immaginare che tornando al 1978 sentirsi partire nelle orecchie un pezzo come
questo potesse essere qualcosa di nuovo e, questo sicuramente, molti grandi
chitarristi venuti fuori negli anni successivi sono stati influenzati da Van
Halen.
Come detto Eruption è un saggio del suo
virtuosismo, un assolo che sebbene non sia inserito nel contesto di una canzone
e risulti magari fine a se stesso… beh è tanta roba lo stesso.
La
successiva You Really Got Me è la cover del più famoso brano dei londinesi
The Kinks, pezzo trainante del loro
primo disco nel lontano 1964. L’originale è un bel pezzo rock con un riff che
entra subito in testa.
I Van Halen
ne tirano fuori una versione più veloce e di impatto: il riff sulla chitarra di
Eddie diventa ancora più figo, Roth qui è perfetto per la natura stessa della
canzone, i cori ci stanno alla grande, il basso si fa sentire di più e, oltre alle
varie pistolate qua e là durante le strofe, il solo a metà canzone è molto
bello. 2 minuti e mezzo belli tirati. Ah… tra l’altro pure questa la si trova
in Guitar Hero.
Ooooh arriviamo
a quella che è la mia canzone preferita dell’album, e con i suoi 3:47 minuti anche
la più lunga, Ain't Talkin' 'bout Love. Si comincia subito con la chitarra in
primo piano grazie a una serie di riffs ben assestati cui si aggregano poi la
batteria e un basso “corposo”. Roth fa un buon lavoro alla voce e il ritornello
è da memorizzazione istantanea, anche grazie alle backing vocals. EVH per tutto
il pezzo sfodera una ritmica da paura e dopo il secondo ritornello ci piazza un
assolo breve ma incisivo, cui segue ancora un Roth a rotta di collo (ah-ah) e
poi il momento sommesso prima dell’ultima pigiata sull’acceleratore con un
secondo assolo e un “Ehi! Ehi! Ehi!” da stadio. La canzone entra subito in
testa e vede tutti e 3 i musicisti lavorare alla grande assieme.
Riffone
heavy ad aprire la seguente I’m The One, pezzone veloce e con un
Alex scatenato dietro le pelli. Ovviamente la scena la ruba ancora il
fratellino che non sai cosa possa tirar fuori da un secondo all’altro. Poi,
improvviso, dopo un assolo tac! si ferma tutto per qualche momento, ehm,
doo-wop… quindi tornano dove si erano fermati per chiudere in velocità un Lato
A davvero notevole.
La seconda
parte del disco si apre con la più tranquilla Jamie's Cryin con Roth,
ancora ottimamente coadiuvato dalle altre voci, ad usare un tono suadente sul
tappeto sonoro costruito da Eddie e compagni in un pezzo senza grossi sussulti.
Atomic
Punk (oh l’anno prima era stato quello dell’esplosione del punk),
dominata dal suono stridente della sei corde e da David Lee Roth “teatrale”,
come dicevo prima.
Feel
Your Love Tonight ha un altro bel riff ed è un altro ottimo esempio
dell’uso delle backing vocals che pervade l’intero disco. Brano un po’ così, ma
con un notevole guitar solo.
Pure Little
Dreamer vola via trainata da un’atmosfera dolce e, sembra inutile
ripeterlo, dalla chitarra.
Ice
Cream Man, anche questa una cover, non ha nulla a che fare con
l’omonimo brano presente sul primo album di Tom Waits del ’73 (quella di Waits
dovrebbe essere farina del suo sacco) … ovviamente in questo caso, dopo il
primo minuto acustico, la canzone viene scossa dall’elettrico e dal vorticoso
assolo di EVH, che poi “duetta” con Roth nel finale.
Su di giri
per l’undicesima e ultima canzone di Van
Halen, On Fire. Una scarica finale dal sapore heavy metal dove Van
Halen regala l’ultimo sfoggio di bravura e David Lee Roth raggiunge livelli
ragguardevoli con quei “FIREEE!”.
Un ottimo
album Hard Rock/Metal, breve, veloce, aggressivo, sicuramente da recuperare
anche soltanto per sentirsi Eddie Van Halen, ma dove anche il resto della band
fa un più che buon lavoro. Forse la seconda metà di questa opera d'esordio è un po’
inferiore alla gran prima parte, motivo per cui sono tuttora indeciso adesso
che sto scrivendo se metterlo in 4° o 5° posizione …o addirittura lasciarlo fuori dalla cinquina. Per
ora diciamo che gira così.
Come nella
puntata precedente sugli anni ’60 ecco comparire in classifica un album
Progressive.
Nel 1970, un
anno dopo “In The Court Of The Crimson
King”, tre acclamati musicisti britannici mettono su questo gruppo che
porta semplicemente in cartellone I loro cognomi. Sono il tastierista Keith
Emerson (in uscita dai Nice), quel Greg Lake di cui già avevo scritto in quanto
presente sul sopra citato disco d’esordio dei King Crimson (con cui lavorerà
ancora solo parzialmente nel successivo In “The
Wake Of Poseidon”, sempre del 70) qui nel ruolo tuttofare di
bassista/chitarrista/cantante e probabilmente anche di uomo delle pulizie in
sala prove, ed infine il batterista Carl Palmer proveniente dagli Atomic
Rooster, un altro gruppo “tastieroso” che all’inizio dello stesso anno era
uscito col primo album “Atomic Roooster”
(già, con 3 o) in cui già aveva dimostrato le sue doti.
Il loro
omonimo debut album si apre con la strumentale The Barbarian,
arrangiamento in chiave rock di un pezzo per pianoforte di Béla Bartók (oh io
lo riporto, ma ammetto di non averne mai sentito parlare prima). Inizio
distorto accompagnato dalla batteria a cui si unisce subito dopo l’organo
Hammond di Emerson, assoluto protagonista anche quando passa alla tastiera del
pianoforte nella parte centrale del brano.
Intorno al
terzo minuto si torna all’organo e Palmer inizia ad andarci giù pesante, giusto
per ricordare che ci sta pure lui, specialmente verso la fine. Lake fa il suo
mantenendo un basso profilo.
Segue la
lunga (oltre 12 minuti) Take A Pebble scritta e cantata da
Lake. La prima sezione del brano è una ballata dove è protagonista il caldo
cantato di Lake, accompagnato dai ricami del piano, dal lavoro in punta di
fioretto di Palmer e stavolta anche da un basso molto più prominente rispetto a
The Barbarian.
Quando Lake
chiude la seconda strofa parte alla carica Emerson assoleggiando al piano,
incalzato dal basso, fino a giungere al momento più inaspettato… la musica si
ferma e Lake comincia a suonare la chitarra acustica in una parentesi
folk/country con tanto di tempo tenuto da battiti di mani, mentre gli altri
strumenti restano in attesa e superiamo metà della durata della canzone. Un
altro interludio pianistico molto bello precede il rientro in scena di basso e
batteria in una sezione “jazz” dove finalmente anche Palmer può slacciarsi la
cintura di sicurezza. A poco più di un minuto dal termine un intermezzo dai
toni cupi riprende la melodia iniziale e la voce di Lake può concludere la
parte cantata che si spegne dolcemente assieme al piano. 12 minuti e mezzo in
cui ELP mettono un sacco di carne al fuoco, tirando fuori soluzioni non
scontate, ma il risultato è incredibilmente riuscito.
Nei
successivi 5 minuti e spiccioli è racchiusa una delle mie canzoni preferite del
gruppo, Knife Edge, ispirata in più punti da pezzi della musica
classica. Intro di organo e batteria cui subentra subito un gustoso giro di
basso sul quale Lake inizia a cantare i suoi versi. E’ una canzone ricca di rallentamenti e
improvvise ripartenze, con Lake più aggressivo nelle parti cantate. A fare la
parte del leone anche stavolta è il virtuosismo di Emerson all’organo Hammond,
che imperversa per tutto il brano accompagnato dai due colleghi.
Dopo aver
visto alcuni video di esibizioni dal vivo uno degli aggettivi che ho
immediatamente associato ad Emerson è stato “sborone”, tipo quando scuote lo
strumento come fosse un vecchio flipper o si mette lì in piedi in mezzo a due
tastiere suonandole contemporaneamente… però cazzo, è uno che può pure
permettersi di esserlo visto che stiamo parlando di uno dei più importanti e
influenti tastieristi che la scena rock abbia visto.
Dubito sia
così, ma mi piace pensare che da qualche parte in una favela brasiliana un
signore appassionato al Progressivo Rock inglese abbia deciso di chiamare il
proprio figlioletto col cognome del nostro tastierista e alla giusta età gli
abbia detto “Vai e impara l’arte del pianoforte”… ma lì dove lo andava a
trovare un pianoforte? Così come tutti i bambini brasiliani che si rispettino
si dedicò al calcio con buoni risultati, portando anche in Europa il suo nome, Emerson
Ferreira da Rosa anche detto “Il Puma”, famoso per le doti di interdittore e
portasfiga. Ronaldo ancora ringrazia quando prima del Mondiale 2002 il Puma si
infortunò a una spalla volendo imitare Benji Price in allenamento.
Al lento
spegnersi degli strumenti di Knife Edge
si contrappone l’apertura della traccia numero 4. The Three Fates (riferimento
alle tre Parche) è un lungo brano strumentale di quasi 8 minuti suddiviso, come
suggerisce il titolo, in 3 sezioni abbastanza evidenti. Le prime due sono piena
dittatura dell’estroso tastierista: inizio pomposissimo e maestoso dell’organo
che ricorda una di quelle musiche da chiesa. Dopo poco meno di due minuti la
seconda sezione con Emerson nell’ennesima dimostrazione di bravura al
pianoforte. Bisogna aspettare di passare
i 4:30 perché il risuonare dell’organo faccia finalmente entrare in scena anche
Lake&Palmer, pur se sullo sfondo alle scorribande tastieristiche. Il
batterista comunque non si fa scoraggiare e riempie tutto lo spazio disponibile
che l’orecchio può accogliere fino all’esplosione, letteralmente, finale.
Quinto posto
della tracklist per Tank. Questa strumentale è la meno tastierocentrica del disco,
grazie in particolare alla lunga sessione in cui Carl Palmer può dare libero
sfogo al suo talento con un drum solo di notevole fattura. In più tratti anche
Lake al basso sbuca fuori prepotente, specie all’inizio. Emerson fa ampio uso
di strumenti e verso la fine, dopo l’assolo di Palmer, si cimenta in
improvvisazioni con un sintetizzatore Moog cavandone fuori suoni inediti
(magari non tra i più gradevoli) sulla martellante sezione ritmica.
Il disco si
chiude alla 6 (per un totale di oltre 40 minuti) con la traccia più insolita…
rispetto a quelle messe in campo dal trio prima. Lucky Man, primo singolo
estratto al tempo, è una ballata dai toni malinconici nella quale Lake
accompagna alla voce il suono della chitarra acustica, con gli altri due del
gruppo a fare da contorno. Tra la seconda e la terza strofa c’è l’unico assolo
di chitarra elettrica dell’album (sempre suonata da Lake) e nella parte finale
un’improvvisazione col Moog di Emerson.
Curiosa la
storia di Lucky Man: forse il brano
più “noto” del gruppo fu scritto da Greg Lake quando aveva solo dodici anni. Fu
inserita all’ultimo nel disco per “allungarne la durata” nonostante Emerson
ritenesse che non si amalgamasse con le sonorità degli altri pezzi, e la parte
di Moog fu inserita quasi a tradimento da Lake registrando alla “buona la
prima” Emerson mentre provava lo strumento. Inoltre fu il produttore a
sceglierlo come singolo di lancio, senza informarne prima i tre musicisti che
lo scoprirono per caso ascoltando la radio. Non male.
Inizialmente
ero più propenso a mettere Emerson, Lake
& Palmer alla quinta posizione, un po’ come il disco dei King Crimson
per gli anni ’60, ma alla fine riascoltandomelo il gradimento è cresciuto. Tutte
e sei le canzoni meritano (giusto The Three Fates me gusta un po’ meno). Magari
può risultare eccessiva, ma la presenza prominente delle tastiere
(controcorrente rispetto a molte band) l’ho apprezzata. D’altronde con un
esecutore del genere c’è poco da dire.
2) Black Sabbath (1970)
Medaglia
d’argento per un altro gruppo storico, i Black Sabbath, tra gli esponenti più
importanti nello sviluppo dell’Hard Rock e del Metal.
L’album del
quartetto inglese formato da Ozzy Osbourne (voce), Tony Iommi (chitarra),
Geezer Butler (basso) e Bill Ward (batteria) si apre con la title track e una
sinistra atmosfera evocata dal suono delle campane nel mezzo di un temporale. Già
i Black Sabbath ci fanno intuire che le tematiche che andranno ad affrontare
non saranno tra le più scanzonate. Proprio come un fulmine arrivano pesanti la
chitarra di Iommi e la batteria, con il ritmo che cala facendosi estremamente lento
mentre Ozzy comincia a cantare con quel suo stile particolare… che io non
apprezzo particolarmente, infatti pur essendo il cantante storico dei BS il
confronto vocale con alcuni dei suoi successori neppure si pone. Dio? Gillan?
Avete presente no?
Va
riconosciuto che comunque ben si adatta allo stile dell’album.
Abbondantemente
superata la metà dei 6 minuti totali del brano gli strumenti cominciano a farsi
pressanti aaaand… bam! Riff assassino di Iommi e Butler per un finale in
crescendo dove c’è spazio per il primo ottimo guitar solo del disco.
La seconda
traccia, pare in parte ispirata al personaggio di Gandalf, è The
Wizard. Prendete i riff di Iommi e la batteria dell’ultima parte di Black Sabbath, quindi buttateci dentro
Ozzy che oltre a cantare suona l’armonica ed otterrete un particolare brano dal
passo lento in bilico tra rock e le influenze blues del gruppo.
Behind The Wall Of Sleep ripropone
ancora un ottimo affiatamento strumentale: molto bello il riff iniziale, basso
che costruisce un sottofondo tutto suo, bell’assolo a inframmezzare il brano e
Ward che lo chiude in fading.
Arriviamo a N.I.B. (Nativity In
Black? Name In Blood? Butler disse che si trattava di un nomignolo dato
a Ward… deluso Centro San Giorgio?) che è non solo la mia canzone preferita del
disco ma probabilmente di tutta la produzione Black Sabbath che ho sentito fino
ad ora.
Quell’assolo
iniziale di Geezer Butler è o non è l’intro di basso più figo di sempre? Ogni
volta è godurioso.
Altro
azzeccato riff e parte pure Ozzy fino ad un primo brevissimo assolo di Iommi. Chitarra,
basso e batteria perfetti sotto il cantato. Circa a metà un secondo assolo,
stavolta più lungo e davvero bello. Dopo
l’ultimo “My name is Lucifer, please take my hand” ci sta il tempo anche per un
terzo ed ultimo assolo di Iommi che duella con Butler fino alla chiusura.
Tra l'altro c'è una cover davvero spettacolosa fatta dai Primus con Ozzy alla voce (tribute album Nativity in Black II)
La breve Evil
Woman è una cover degli americani Crow che si mantiene sul livello dei
brani precedenti a N.I.B. e contiene un guitar solo più blueseggiante.
Sleeping
Village inizia in maniera lenta e un po’ lugubre, con l’ausilio della
chitarra acustica e del suono di uno scacciapensieri. Dopo un breve stacco irrompe
prepotente tutta la sezione strumentale,
con una serie di cambi di ritmo, in cui è da segnalare il veloce assolo di
chitarra con la sezione ritmica in gran spolvero . Il brano si chiude con Ward
a pestar duro e un suono che richiama quelli iniziali e prosegue fino a
condurci all’interno della canzone successiva, The Warning.
Coverizzando
un brano della band del batterista inglese Aynsley Dunbar pubblicato nel 1967,
i Sabbath lo plasmano secondo il loro stile e lo espandono sforando i 10 minuti
rendendola la più lunga canzone dell’album. Ozzy viene relegato a cantare
giusto nei primi e negli ultimissimi minuti, lasciando il palcoscenico al resto
della band che, trascinata dal suo menomato chitarrista in stato di grazia,
imbastisce questa lunga parte strumentale magari un po’ dispersiva, ma varia e
ben distinta in più segmenti. Più che discreto sfoggio delle proprie qualità.
Un breve
intro di Ward e l’ennesima sequela di riff spettacolari attendono all’ingresso
di Wicked
World, l’ultima traccia di Black
Sabbath. Ed è una convincentissima chiusura che nei suoi poco meno di 5
minuti riassume quanto sentito nel corso dell’ascolto del disco.
A dispetto
della figura di Ozzy, probabilmente elemento che dai più viene associato ai
Black Sabbath, chi ne esce come indiscusso protagonista di questo storico debut
album è Tony Iommi (Non che gli altri sfigurino, anzi). Che tra l’altro fa sapere: “We just went in the studio and did it in a
day, we played our live set and that was it. We actually thought a whole day
was quite a long time, then off we went the next day to play for £20 in
Switzerland.”…
In una
carriera pluridecennale, fra alti e bassi e continui cambi di formazione i
Black Sabbath sono ancora in attività ed hanno sfornato 18 album. Ne ho
ascoltati solo una manciata, con qualche altro brano sparso qua e là, ma ci
tengo a segnalare il loro secondo disco.
Sempre nel
1970, come avevano fatto i Led Zeppelin l’anno precedente, il quartetto di
Birmingham pubblica un seguito del suo omonimo primo album e se Black Sabbath è
un grandissimo (e seminale) esordio…. Beh Paranoid è, almeno per i miei gusti,
pure meglio.
Senza
entrare nel dettaglio, un disco che si apre con War Pigs e contiene brani come
Paranoid, Iron Man, Rat Salad o Fairies Wear Boots… “Bravo”!
1) Queen (1973)
L’anno il
’73, il posto il cielo artico… oh wait, quella è un’altra storia, fermiamoci
all’anno.
E’ infatti
nel 1973 che fa il suo debutto sulla scena discografica una delle band più
famose/importanti/iconiche della storia del Rock, i britannici Queen. Uno dei
miei gruppi preferiti in assoluto, con Freddie Mercury di cui già avevo
ampiamente scritto qui. Già questa doverosa premessa potrebbe bastare a
spiegare perché il loro disco d’esordia si piazzi in cima alla Top5? Forse, o
forse no, dato che se non fosse anche il gran lavoro qual è probabilmente qui
ci sarebbe un altro nome.
Già dalla
loro opera prima i Queen schierano la storica formazione costituita da Freddie
Mercury nelle vesti di vocalist principale, Brian May alle chitarre (e backing
vocals), Roger Taylor alla batteria con licenza di cantare occasionalmente
anche come voce principale in alcuni brani, e John Deacon come bassista
carismatico. Questa la lineup che rimarrà intatta per il resto della carriera
dei Queen, fino alla morte di Freddie nel 1991… lasciando stare le operazioni
successive di mantenere vivo un progetto in cui neppure Deacon credeva, con
“Queen+Paul Rodgers”.
Pensate... nemmeno ELP hanno avuto sempre la stessa formazione, visto che per un periodo i furbacchioni per mantenere inalterata la sigla hanno preso alla batteria Cozy Powell come rimpiazzo di Carl Palmer, che nel frattemp si era unito ad un altro branco di scarsoni per formare gli Asia.
Chiudiamo le divagazioni e via col disco!
Keep
Yourself Alive, scelto come primo singolo da parte del gruppo, da il
via alle danze con l’ingresso in fila indiana di chitarra, batteria e basso.
Quindi parte anche la voce di Mercury, affiancato dal coro dei compagni durante
il ritornello. Si tratta di un pezzo rock sotto i 4 minuti dal ritmo veloce che,
a differenza dei precedenti primi lavori di Led Zeppelin (da cui sono stati
sicuramente influenzati), Cream, Jimi Hendrix o Black Sabbath, non presenta
quelle sonorità ancora in parte legate al blues. Piazzato come opener concentra
subito l’attenzione grazie all’impatto immediato: Mercury da già un’idea delle
sue qualità (tra l’altro dando l’impressione di non sforzarsi neppure troppo),
facciamo conoscenza con le armonie vocali e il vasto uso di tracce multiple che
caratterizzeranno molto i primi album dei Queen (su cui i 4 si premuravano di
far scrivere “No Synthesizers”, la Red Special di May è incisiva pur non
essendoci un vero guitar solo… assolo
invece riservato alla batteria di Taylor circa a 2/3 della canzone.
Doing
All Right è stata scritta da May quando militava nel suo vecchio
gruppo, gli Smile, poi trasformatisi nei Queen. E’ una canzone meno immediata
di Keep Yourself Alive, ma che stupisce maggiormente.
L’inizio è
quanto di più tranquillo ci si possa attendere, con il pianoforte (in una delle
rare occasioni suonato da May) ad accompagnare un Mercury delicatissimo. Anche
con l’ingresso degli altri strumenti il clima si mantiene quello di una ballata
e Freddie sale leggermente d’intensità. Segue un breve intermezzo acustico che
si trasforma, assieme alla crescente potenza della voce, in un quanto mai
inaspettato momento di puro hard rock. Altra peculiarità di questi primi Queen
saranno i numerosi cambi di tempo… dopo breve infatti si rallenta di nuovo con
Freddie che torna ai toni iniziali prima di uno stacco da cui i suoi compagni
partono in un’altra mitragliata strumentale, dove spiccano soprattutto l’assolo
di May e la potenza di Taylor. Infine il brano si chiude con il piano e
un’armonia vocale che riprende le precedenti parti cantate.
La
successiva Great King Rat scritta da Mercury con il suo lungo testo sfora
i 5 minuti e mezzo, che iniziano con i suoni distorti della chitarra di May per
poi compattarsi in una cavalcata scandita dalla batteria su cui la voce avanza
senza esitazioni fino al ritornello. Ancora notevole Taylor nella seconda
strofa/ritornello. Mercury con uno “Show me” lascia spazio quindi a un assolo
di May. Superato nuovamente il ritornello cambiamento di ritmo con un testo dai
temi “religiosi”. Silenzioso intermezzo prima che la chitarra faccia ripartire la
cavalcata iniziale, quindi un doppio guitar solo. Nella sezione finale ultima
riproposizione del ritornello e chiusura con Taylor a picchiare duro in fading.
Uno dei brani più riusciti di Queen I.
La fantasy My
Fairy King vede per la prima volta Mercury anche in veste di pianista,
oltre che un largo utilizzo di vocalizzazioni sovrapposte (come detto i Queen
ne faranno una caratteristica peculiare… basta pensare a Bohemian Rhapsody).
Specialmente
nelle parti iniziali, oltre a Mercury è da segnalare anche la prova vocale di
Roger Taylor autore, immagino, dei vari urli. Dopo uno di questi c’è una bella
sezione con dei versi cantati rapidamente da Mercury, un’armonia vocale e un
breve momento ritagliato al basso di Deacon che sfocia in un’altra strofa. Qui
c’è poi spazio per un quasi intimistico Freddie al piano che conclude il testo
della canzone… spazio da cui tra l’altro nascerà il suo nome d’arte derivato da
uno stralcio del testo che recita “Mother
Mercury Look what they've done to me”.
L’ultimo minuto
è strumentale in un crescendo in cui è coinvolto anche il piano.
Liar
è il secondo singolo estratto dall’album. Scelta particolare data la durata di
oltre 6 minuti della canzone… che è però una delle migliori qui presenti.
Intro
affidata a Taylor, seguito poi da una serie di riff. La prima parte del testo
vede Mercury cantare e venire fronteggiato dai cori che urlano “Liar”. Tra le
altre cose da notare il falsetto di Freddie e un bel giro di basso. E’ quindi
il momento per l’assolo di May. Tutta la parte seguente è un susseguirsi di
riusciti incastri vocali mentre gli strumenti si prendono il loro spazio, in
particolare Deacon che si permette pure un assolo di basso.
Alla 6 della
tracklist c’è The Night Comes Down, scritta da Brian May e primo pezzo
scritto a formazione stabilizzata. L’inizio guidato dalla chitarra è reso quasi
cupo dal gran lavoro di Deacon al basso e crea un’atmosfera particolare in cui
si inserisce dopo quasi un minuto Mercury. Carino il ritornello rafforzato
dalle backing vocals. Chiusa la parte cantata con il secondo ritornello si
scivola lisci fino alla fine con una parte strumentale ancora trascinata dai
giri di chitarra e basso, che in una costante accelerazione sembrano fare da
ideale punto di partenza per la seguente Modern Times Rock 'n' Roll. Breve e
veloce brano scritto e cantato da Roger Taylor, che nel suo minuto e 40 riesce
a farci stare un testo più lungo di altri presenti in precedenza e anche un
assolo di May. Nulla di eccezionale ma adatta per dare la scossa dopo The Night
Comes Down.
Son
And Daughter è caratterizzata da un suono piuttosto pesante, non necessariamente
più veloce (se si esclude l’accelerata finale), rispetto ad alcuni dei brani
precedenti. Quasi sabbathiano mi verrebbe da dire… con la potente voce di Freddie
in più.
L’ultima
canzone cantata del disco è Jesus, scritta dallo stesso Mercury
ci racconta qualche scena della vita di Gesù. La prima metà è dominata dal
cantato, che non sarà una delle migliori prove del cantante di Zanzibar ma è comunque
un perfetto esempio di qualità espressiva e fraseggio, mentre la seconda metà
di Jesus è prettamente strumentale,
dal sapore quasi psichedelico, dove svetta la chitarra di May sorretta da un
bel lavoro di Taylor alla batteria. Quasi in chiusura ritorna, per l’ultima
volta sul disco, la voce di Freddie che va a dissolversi prima della canzone
conclusiva di questo spettacolare Queen.
“Seven
Seas of Rhye...”, il cui titolo si rifà al paese immaginario di cui
parla anche My Fairy King, è un breve
pezzo strumentale in cui ben si nota il piano suonato da Mercury a cui vanno
poi ad aggiungersi I vari strumenti in un vortice quasi confusionario che va
affievolendosi in dissolvenza.
L’anno
successivo il secondo disco della band, Queen
II, si chiuderà con la versione rivista, completa, cantata e più lunga di Seven Seas of Rhye, che si rivelerà il
loro primo singolo di successo.
Queen I
magari, anzi quasi sicuramente, non è il migliore album del quartetto inglese.
E’ ancora per certi versi un prodotto acerbo, dove gli strumenti pur se con
ottimi momenti non sono ancora alla massima espressione, senza una vera canzone
che svetti sulle altre e anche Freddie Mercury non raggiunge mai le vette che
negli album successivi lo rendono il mio cantante preferito all-time. Ciò nonostante
lo considero un gran bel lavoro, soprattutto considerando che è un disco d’esordio
e che già racchiude parte delle caratteristiche dei primi Queen.
La cosa
bella con questo gruppo è che, almeno secondo il sottoscritto, nella quasi
ventennale carriera di uscite davvero brutte (escludendo magari l’album colonna
sonora di Flash Gordon e Hot Space, che pur contiene Under Pressure) è
difficile trovarne. Sugli altri album di piccole e grandi perle se ne trovano
davvero un sacco, tra le più famose a quelle quasi sconosciute ai più.
A differenza
della Top5 degli anni ’60 qui avrete
notato una piccola particolarità: ho evitato di indicare ad ogni posizione il
nome della band e quello dell’album, in quanto per tutte e 5 le posizioni il
titolo scelto per il disco corrisponde al nome del gruppo. Non è che si siano
sprecati troppo eh?
Giusto una
menzione veloce per qualche titolo che avrei potuto inserire ma è rimasto
fuori:
- High Voltage degli australiani AC/DC, la versione internazionale dell’annata 1976, propone per la prima volta il classico sound della band di Angus Young e presenta già alcuni pezzi validi come ”It's a Long Way to the Top” , “T.N.T.” o “The Jack”
- L’omonimo debutto degli inglesi Bad Company (1974) guidati dal già citato Paul Rodgers. Ero davvero indeciso, ma alla fine il non bilanciatissimo livello tra la prima e la seconda parte del disco mi ha fatto propendere per lasciarlo fuori. Gran pezzi come “Can't Get Enough”, “Rock Steady”, “Ready For Love” e la title track.
- L’ impronunciabile prima uscita dei Lynyrd Skynyrd, che contiene roba come “Simple Man” o “Free Bird”, ma non ho ascoltato abbastanza.
- Qualcos’altro di sicuro che al momento non mi sovviene.
E siamo
quindi giunti finalmente al capolinea di questo lungherrimo post. Che se credete
di averci messo una vita a leggerlo pensate per un attimo a quanto ne ho
impiegato io per scriverlo.
Lasciate pure
un parere e se volete esprimete le vostre preferenze.
Arrivederci
alla prossima.
Nessun commento:
Posta un commento