martedì 15 gennaio 2013

Top 5: Favorites Debut Albums Of The 70s


Seconda puntata sui miei album d'esordio preferiti, decade per decade.


I 70s vedono il grande successo fra gli altri di generi musicali come la Disco/Dance, di cui il film Saturday Night Fever del 1977, con alcuni dei brani più noti dei Bee Gees e le evoluzioni sulla pista di Tony Manero/John Travolta, è un po' l’emblema.
Ma è anche il decennio, complice/causa il particolare momento socio-politico, in cui “esplode” il fenomeno Punk. Anno fondamentale è ancora il '77 con l’uscita in Inghilterra di Nevermind The Bollocks dei Sex Pistols e il primo omonimo album dei The Clash. Mentre negli States escono Leave Home e Rocket To Russia dei newyorkesi Ramones, il cui esordio (contenente il cult Blitzkrieg Bop) risale all’anno prima.
Di tutto questo però, ve lo dico subito, per stilare questa Top 5 ci interessa ben poco. Perché rimanendo sul sentiero tracciato con il precedente post sugli anni ’60 è ancora il rock ad essere protagonista.
Ma bisognava pur fare qualche preambolo...

Pronti per iniziare? Ecco i 5 nomi che hanno superato il fuoco di sbarramento e sono arrivati a giocarsi le posizioni che contano (esticazzi, no?):


5) Boston (1976)
Navi spaziali dalla forma di chitarre. LOL
La carrellata incomincia con un album del 1976 Made in USA realizzato dai Boston, band almeno in Italia non particolarmente conosciuta.
A proposito di notorietà il disco parte subito fortissimo con la loro canzone probabilmente più famosa, quella More Than A Feeling che sicuramente avrete sentito da qualche parte: in radio, in qualche spot pubblicitario, in un film o giocando a Guitar Hero.
Vengono subito fuori alcune delle caratteristiche principali dell’album: sonorità orecchiabili, parti strumentali ben piazzate e la gran voce di Brad Delp (Brevissima digressione personale. Ricordo quando avevo sentito la notizia della sua morte. Mi pareva abbastanza recente e invece si parla del 2007, quasi 6 anni fa.)
La voce dona alla canzone quel tocco delicato, in particolare nelle strofe, per poi salire in alto per richiamare gli strumenti al lato più rock: dalla batteria, al riff nel ritornello fino all’assolo a metà del brano.
In particolare alla fine della terza strofa e alla fine dell’ultimo ritornello Delp tira fuori dei discreti acuti…
Alla fine More Than A Feeling non può non entrarti in testa. Roba che se ti parte in macchina… beh il “MoDENA FIIIILIN” con coretto un po’ gaio ci scappa.
Il testo si riferisce a quella sensazione che è in grado di trasmettere la musica, sia per distaccarci dal mondo o per far tornare alla memoria ricordi e volti. So che anche a voi sarà capitato.
Primo singolo rilasciato dalla band è quello che trascinerà le vendite del disco fino a renderlo uno dei debut album più venduti di sempre negli States, con più di 17 milioni di copie vendute.
Nel preparare questa classifica, oltre a riascoltarmi un po’ gli album, mi sono anche dedicato a qualche lettura di approfondimento ed in particolare ho trovato interessante la storia della produzione di Boston.
La mente da cui nasce la band è quella di Tom Scholz, ragazzo laureato al MIT e al tempo impiegato alla Polaroid, appassionato di strumenti tecnologici e affini. Inizia a dedicarsi alla musica da autodidatta suonando chitarra ed altri strumenti fino a rispondere all’annuncio di un gruppo alla ricerca di un tastierista, andandosi così a unire al chitarrista Goadreau, il batterista Masdea e successivamente Delp.
Scholz registra con la band alcuni demo direttamente nel suo studio “fatto in casa” (con parte della strumentazione da lui stesso creata) rimanendo molto soddisfatto del risultato finale e attira l’attenzione della Epic Records che propone ai Boston di registrare in uno studio professionale … salvo che poi Scholz in qualche modo ci mette ancora mano nel suo studio fino ad ottenere il risultato finale che possiamo ascoltare.
Alla fine sull’album ci ritroviamo con Sib Hashian alla batteria (preferito dalla Epic a Masdea, che suona solo in una traccia), Delp nel ruolo di cantante e chitarrista e uno Scholz tuttofare con chitarre, tastiere e basso.
Goudreau e il bassista Fran Sheehan accreditati su un paio di brani.
Ma torniamo al disco. Subito dopo la trascinante opener abbiamo Peace Of Mind, che si mantiene sulla falsariga di More Than A Feeling, ma con più brio.
Alla breve apertura acustica si sovrappongono subito chitarra elettrica e batteria. Un bel riff introduce quindi Delp, probabilmente qui alla miglior performance vocale sul disco. Anche qui ritornello che prende subito. La parte strumentale a metà pezzo non è affatto male, con una batteria figa e le chitarre ad assoleggiare. Così come la coda dopo quell’ultimo “Take a look ahead. Look aheaaaaad!”… batteria, voci che si abbassano. Stop (che come dice un mio amico le pause sono molto importanti. Ah lo sai?). E via a ripartire con una serie di riff ed un assolo che chiude in fading la canzone.
Un gran bel pezzo.
Foreplay/Longtime è la traccia più lunga dell’album con i suoi quasi 8 minuti, anche se si potrebbe considerare come suggerisce il titolo stesso un brano diviso in due. La prima volta che l’ho sentita è stata durante una partita a uno dei Guitar Hero, in cui è presente per intero… ed è anche assai divertente da fare.
 Foreplay è l’intro strumentale dove Scholz alle tastiere (organo?) fa la sua bella figura, ben coadiuvato dalla chitarra e da un drumming furioso. Dopo un’ondata di suono ed alcuni secondi di calma si parte con Longtime ed arriva anche Delp, per un pezzo in cui si alternano alla grande intermezzi strumentali e parti cantate.
Segue Rock And Roll Band, che potremmo definire come una sorta di inno per le band emergenti.
E’ un brano scanzonato in cui ad ogni strofa Delp “racconta” alcune delle tappe di molti gruppi: Una qualsiasi band venuta fuori da Boston, che suona nei bar e dorme in auto, senza soldi ma sempre pronta a dare il massimo sul palco. L’inizio della notorietà senza preoccupazioni per quello che ci si è lasciati alle spalle. Fino alla proposta di un contratto discografico da un uomo in Cadillac con un grosso sigaro.
Pezzo breve e abbastanza lineare, con giusto un paio di brevi assoli. Molto bello l’attacco del ritornello, che anche in questo caso fa subito presa, e un Brad Delp che “impazzisce” nell’ultima strofa.
La traccia numero 5 si chiama Smokin’, scritta dal tandem Scholz-Delp, ed è un brano veloce che per me ha un po’ il gusto di Deep Purple, in particolare per la parte di tastiera centrale che mi ha ricordato Highway Star (con le dovute proporzioni). Voce e batteria continuano a dire la loro.
Dopo un paio di pezzi come Rock And Roll Band e Smokin’ il ritmo cala, ma solo apparentemente, con Hitch A Ride. L’inizio è tranquillo e cullato dalla voce di Delp in cui quasi stona (ma anche no) la presenza della batteria… improvvisamente dopo 1 minuto e mezzo irrompe prepotente Scholz facendo volare le dita sulla tastiera e il ritmo cambia completamente. Dopo un breve intervento chitarristico sembra di tornare sui binari iniziali… almeno fino al lungo guitar solo che si protrae fino al termine della canzone. Not bad.
Dopo qualche secondo in sordina parte con un “riff molto gay” (cit.) Something About You, mid tempo orecchiabile (ma ormai ci siamo abituati, no?)il cui testo parla di un giovane che vuole rivelare i propri sentimenti a una ragazza. “Like a man made of stone. But there’s something about you” , per I duri dal cuore tenero.
Siamo arrivati alla fine, con la traccia n°8 Let Me Take You Home Tonight in cui troviamo anche Goudreau e Fran Sheehan al basso (con quel cognome…). Ballad che è probabilmente il brano che mi ha colpito meno dell’album, pur avendo alcune cose interessanti come le primissime battute con un retrogusto … mmm… Yes, mi viene da dire. E l’accelerata finale con un coretto ad accompagnare uno scatenato Delp. Dissolvenza. Fine.
Riascoltandolo ho maggiormente fatto caso alle parti di batteria che mi sono piaciute parecchio e, ovviamente all’ugola d’oro che aveva quel tizio che ci pronunci nome e cognome con due sillabe.
Inoltre ci sono tutta una serie di caratteristiche che sicuramente hanno influenzato varie band del panorama Rock/AOR americano che tanto mi piacciono, dai Journey ai Survivor, ecc.
Sicuramente dedicherò un po’ di tempo anche a qualcuno dei brani della loro breve discografia.

Segue video con Brad "Ras del quartiere" Delp...



 4) Van Halen (1978)
Cover semplice con la foto dei 4 della band in pose da bulli.
I Van Halen. La prima sega. La vicina di casa, un travestito ai più noto come Lola che mia madre chiamava Antonio con nostro sommo sbigottimento” dicevano gli Offlaga Disco Pax nel 2005.
Lasciamo stare tutta quella triste storia sul Toblerone (-qualcuno sa perché-) e concentriamoci sul gruppo americano che nel 1978 sforna il suo disco d’esordio che metto qui in quarta posizione, i Van Halen, appunto.
Da Boston, Massachusetts facciamo un doppio volo intercontinentale sopra l’Atlantico.
Prima tappa nel paese dei tulipani, dei mulini a vento e degli zoccoli di legno, l’Olanda (no, non l’Italia, che al massimo di legno ci sono le zoccole). E’ qui che nascono i fratelli Van Halen, non proprio un tipico cognome americano in effetti, nella prima metà degli anni ’50.
Seconda tappa sulla West Coast dove la famiglia dei giovani Edward “Eddie” ed Alexander “Alex” emigra nei primi anni ‘60.
Inizialmente Eddie si era dato alla batteria ed il fratello maggiore alla chitarra, ma ben presto la vocazione del primo li ha portati a scambiarsi gli strumenti. Dite che è andata bene così?
Negli anni ’70 i due fratelli fondano il gruppo che porta il loro nome, insieme al bassista Michael Anthony e al cantante e frontman David Lee Roth.
Van Halen, l’album, si apre con Runnin' With The Devil. Faccio subito una premessa, sebbene sia pur bravo non sono un grande estimatore del David Lee Roth cantante… non sono mai molto bravo nello spiegarlo ma il suo stile lo trovo, come mi piace dire, un po’ “teatrale”… mi pare di ascoltare certi musical in cui i personaggi sembrano quasi che stiano parlando anziché cantando. O almeno questa è l’impressione che mi ha dato ascoltando alcune delle canzoni col gruppo. Insomma… è tutta un’altra roba rispetto a Brad Delp di cui scrivevo poco sopra e dovendo scegliere come cantante nel senso stretto del termine gli preferisco Sammy Hagar, suo successore quando abbandonò la band per dedicarsi alla carriera solista (oltretutto riunendo insieme gente come Steve Vai, Billy Sheehan e Gregg Bissonette). Che poi fosse un gran frontman/showman è un altro discorso.
Questa cosa di Diamond Dave penso venga abbastanza fuori proprio nell’opener del disco, dove dona al pezzo quel suo ritmo non troppo veloce, appoggiato nel ritornello dalle azzeccate backing vocals. Alex e Michael Anthony costanti per tutto il pezzo. Ma la cosa che balza subito all’orecchio è sicuramente la chitarra sia per graffiante riff iniziale che per quanto riguarda, soprattutto direi, la parte ritmica. I due brevi assoli non sono certo memorabili, e ancora non rendono l’idea di quanto ci aspetta dopo. Nel complesso un buon pezzo.
A seguire EVH lascia il suo biglietto da visita all’ascoltatore … e al mondo dell’hard rock e della sei corde. Solo immaginate che questo biglietto ve lo scagli contro Gambit, quello degli X-Men.
Perché Eruption, un branetto di un un minuto e 42 secondi, dopo i primissimi secondi di batteria non è altro che un compendio ultraconcentrato del Van Halen chitarrista e di un certo modo di suonare lo strumento, reso famoso in particolare per l’uso del tapping.
Adesso, io non sono un esperto in materia anzi diciamo che sono abbastanza ignorante in tema di teoria (e pratica) della chitarra e della sua evoluzione, ma posso immaginare che tornando al 1978 sentirsi partire nelle orecchie un pezzo come questo potesse essere qualcosa di nuovo e, questo sicuramente, molti grandi chitarristi venuti fuori negli anni successivi sono stati influenzati da Van Halen.
Come detto Eruption è un saggio del suo virtuosismo, un assolo che sebbene non sia inserito nel contesto di una canzone e risulti magari fine a se stesso… beh è tanta roba lo stesso.
La successiva You Really Got Me è la cover del più famoso brano dei londinesi The Kinks, pezzo trainante del loro primo disco nel lontano 1964. L’originale è un bel pezzo rock con un riff che entra subito in testa.
I Van Halen ne tirano fuori una versione più veloce e di impatto: il riff sulla chitarra di Eddie diventa ancora più figo, Roth qui è perfetto per la natura stessa della canzone, i cori ci stanno alla grande, il basso si fa sentire di più e, oltre alle varie pistolate qua e là durante le strofe, il solo a metà canzone è molto bello. 2 minuti e mezzo belli tirati. Ah… tra l’altro pure questa la si trova in Guitar Hero.
Ooooh arriviamo a quella che è la mia canzone preferita dell’album, e con i suoi 3:47 minuti anche la più lunga, Ain't Talkin' 'bout Love. Si comincia subito con la chitarra in primo piano grazie a una serie di riffs ben assestati cui si aggregano poi la batteria e un basso “corposo”. Roth fa un buon lavoro alla voce e il ritornello è da memorizzazione istantanea, anche grazie alle backing vocals. EVH per tutto il pezzo sfodera una ritmica da paura e dopo il secondo ritornello ci piazza un assolo breve ma incisivo, cui segue ancora un Roth a rotta di collo (ah-ah) e poi il momento sommesso prima dell’ultima pigiata sull’acceleratore con un secondo assolo e un “Ehi! Ehi! Ehi!” da stadio. La canzone entra subito in testa e vede tutti e 3 i musicisti lavorare alla grande assieme.
Riffone heavy ad aprire la seguente I’m The One, pezzone veloce e con un Alex scatenato dietro le pelli. Ovviamente la scena la ruba ancora il fratellino che non sai cosa possa tirar fuori da un secondo all’altro. Poi, improvviso, dopo un assolo tac! si ferma tutto per qualche momento, ehm, doo-wop… quindi tornano dove si erano fermati per chiudere in velocità un Lato A davvero notevole.
La seconda parte del disco si apre con la più tranquilla Jamie's Cryin con Roth, ancora ottimamente coadiuvato dalle altre voci, ad usare un tono suadente sul tappeto sonoro costruito da Eddie e compagni in un pezzo senza grossi sussulti. Atomic Punk (oh l’anno prima era stato quello dell’esplosione del punk), dominata dal suono stridente della sei corde e da David Lee Roth “teatrale”, come dicevo prima.
Feel Your Love Tonight ha un altro bel riff ed è un altro ottimo esempio dell’uso delle backing vocals che pervade l’intero disco. Brano un po’ così, ma con un notevole guitar solo.
Pure Little Dreamer vola via trainata da un’atmosfera dolce e, sembra inutile ripeterlo, dalla chitarra.
Ice Cream Man, anche questa una cover, non ha nulla a che fare con l’omonimo brano presente sul primo album di Tom Waits del ’73 (quella di Waits dovrebbe essere farina del suo sacco) … ovviamente in questo caso, dopo il primo minuto acustico, la canzone viene scossa dall’elettrico e dal vorticoso assolo di EVH, che poi “duetta” con Roth nel finale.
Su di giri per l’undicesima e ultima canzone di Van Halen, On Fire. Una scarica finale dal sapore heavy metal dove Van Halen regala l’ultimo sfoggio di bravura e David Lee Roth raggiunge livelli ragguardevoli con quei “FIREEE!”.
Un ottimo album Hard Rock/Metal, breve, veloce, aggressivo, sicuramente da recuperare anche soltanto per sentirsi Eddie Van Halen, ma dove anche il resto della band fa un più che buon lavoro. Forse la seconda metà di questa opera d'esordio è un po’ inferiore alla gran prima parte, motivo per cui sono tuttora indeciso adesso che sto scrivendo se metterlo in 4° o 5° posizione …o addirittura lasciarlo fuori dalla cinquina. Per ora diciamo che gira così.



 4) Emerson, Lake & Palmer (1970)

Come nella puntata precedente sugli anni ’60 ecco comparire in classifica un album Progressive.
Nel 1970, un anno dopo “In The Court Of The Crimson King”, tre acclamati musicisti britannici mettono su questo gruppo che porta semplicemente in cartellone I loro cognomi. Sono il tastierista Keith Emerson (in uscita dai Nice), quel Greg Lake di cui già avevo scritto in quanto presente sul sopra citato disco d’esordio dei King Crimson (con cui lavorerà ancora solo parzialmente nel successivo In “The Wake Of Poseidon”, sempre del 70) qui nel ruolo tuttofare di bassista/chitarrista/cantante e probabilmente anche di uomo delle pulizie in sala prove, ed infine il batterista Carl Palmer proveniente dagli Atomic Rooster, un altro gruppo “tastieroso” che all’inizio dello stesso anno era uscito col primo album “Atomic Roooster” (già, con 3 o) in cui già aveva dimostrato le sue doti.
Il loro omonimo debut album si apre con la strumentale The Barbarian, arrangiamento in chiave rock di un pezzo per pianoforte di Béla Bartók (oh io lo riporto, ma ammetto di non averne mai sentito parlare prima). Inizio distorto accompagnato dalla batteria a cui si unisce subito dopo l’organo Hammond di Emerson, assoluto protagonista anche quando passa alla tastiera del pianoforte nella parte centrale del brano.
Intorno al terzo minuto si torna all’organo e Palmer inizia ad andarci giù pesante, giusto per ricordare che ci sta pure lui, specialmente verso la fine. Lake fa il suo mantenendo un basso profilo.
Segue la lunga (oltre 12 minuti) Take A Pebble scritta e cantata da Lake. La prima sezione del brano è una ballata dove è protagonista il caldo cantato di Lake, accompagnato dai ricami del piano, dal lavoro in punta di fioretto di Palmer e stavolta anche da un basso molto più prominente rispetto a The Barbarian.
Quando Lake chiude la seconda strofa parte alla carica Emerson assoleggiando al piano, incalzato dal basso, fino a giungere al momento più inaspettato… la musica si ferma e Lake comincia a suonare la chitarra acustica in una parentesi folk/country con tanto di tempo tenuto da battiti di mani, mentre gli altri strumenti restano in attesa e superiamo metà della durata della canzone. Un altro interludio pianistico molto bello precede il rientro in scena di basso e batteria in una sezione “jazz” dove finalmente anche Palmer può slacciarsi la cintura di sicurezza. A poco più di un minuto dal termine un intermezzo dai toni cupi riprende la melodia iniziale e la voce di Lake può concludere la parte cantata che si spegne dolcemente assieme al piano. 12 minuti e mezzo in cui ELP mettono un sacco di carne al fuoco, tirando fuori soluzioni non scontate, ma il risultato è incredibilmente riuscito.
Nei successivi 5 minuti e spiccioli è racchiusa una delle mie canzoni preferite del gruppo, Knife Edge, ispirata in più punti da pezzi della musica classica. Intro di organo e batteria cui subentra subito un gustoso giro di basso sul quale Lake inizia a cantare i suoi versi.  E’ una canzone ricca di rallentamenti e improvvise ripartenze, con Lake più aggressivo nelle parti cantate. A fare la parte del leone anche stavolta è il virtuosismo di Emerson all’organo Hammond, che imperversa per tutto il brano accompagnato dai due colleghi.
Dopo aver visto alcuni video di esibizioni dal vivo uno degli aggettivi che ho immediatamente associato ad Emerson è stato “sborone”, tipo quando scuote lo strumento come fosse un vecchio flipper o si mette lì in piedi in mezzo a due tastiere suonandole contemporaneamente… però cazzo, è uno che può pure permettersi di esserlo visto che stiamo parlando di uno dei più importanti e influenti tastieristi che la scena rock abbia visto.
Dubito sia così, ma mi piace pensare che da qualche parte in una favela brasiliana un signore appassionato al Progressivo Rock inglese abbia deciso di chiamare il proprio figlioletto col cognome del nostro tastierista e alla giusta età gli abbia detto “Vai e impara l’arte del pianoforte”… ma lì dove lo andava a trovare un pianoforte? Così come tutti i bambini brasiliani che si rispettino si dedicò al calcio con buoni risultati, portando anche in Europa il suo nome, Emerson Ferreira da Rosa anche detto “Il Puma”, famoso per le doti di interdittore e portasfiga. Ronaldo ancora ringrazia quando prima del Mondiale 2002 il Puma si infortunò a una spalla volendo imitare Benji Price in allenamento.
Al lento spegnersi degli strumenti di Knife Edge si contrappone l’apertura della traccia numero 4. The Three Fates (riferimento alle tre Parche) è un lungo brano strumentale di quasi 8 minuti suddiviso, come suggerisce il titolo, in 3 sezioni abbastanza evidenti. Le prime due sono piena dittatura dell’estroso tastierista: inizio pomposissimo e maestoso dell’organo che ricorda una di quelle musiche da chiesa. Dopo poco meno di due minuti la seconda sezione con Emerson nell’ennesima dimostrazione di bravura al pianoforte.  Bisogna aspettare di passare i 4:30 perché il risuonare dell’organo faccia finalmente entrare in scena anche Lake&Palmer, pur se sullo sfondo alle scorribande tastieristiche. Il batterista comunque non si fa scoraggiare e riempie tutto lo spazio disponibile che l’orecchio può accogliere fino all’esplosione, letteralmente, finale.
Quinto posto della tracklist per Tank. Questa strumentale è la meno tastierocentrica del disco, grazie in particolare alla lunga sessione in cui Carl Palmer può dare libero sfogo al suo talento con un drum solo di notevole fattura. In più tratti anche Lake al basso sbuca fuori prepotente, specie all’inizio. Emerson fa ampio uso di strumenti e verso la fine, dopo l’assolo di Palmer, si cimenta in improvvisazioni con un sintetizzatore Moog cavandone fuori suoni inediti (magari non tra i più gradevoli) sulla martellante sezione ritmica.
Il disco si chiude alla 6 (per un totale di oltre 40 minuti) con la traccia più insolita… rispetto a quelle messe in campo dal trio prima. Lucky Man, primo singolo estratto al tempo, è una ballata dai toni malinconici nella quale Lake accompagna alla voce il suono della chitarra acustica, con gli altri due del gruppo a fare da contorno. Tra la seconda e la terza strofa c’è l’unico assolo di chitarra elettrica dell’album (sempre suonata da Lake) e nella parte finale un’improvvisazione col Moog di Emerson.
Curiosa la storia di Lucky Man: forse il brano più “noto” del gruppo fu scritto da Greg Lake quando aveva solo dodici anni. Fu inserita all’ultimo nel disco per “allungarne la durata” nonostante Emerson ritenesse che non si amalgamasse con le sonorità degli altri pezzi, e la parte di Moog fu inserita quasi a tradimento da Lake registrando alla “buona la prima” Emerson mentre provava lo strumento. Inoltre fu il produttore a sceglierlo come singolo di lancio, senza informarne prima i tre musicisti che lo scoprirono per caso ascoltando la radio. Non male.
Inizialmente ero più propenso a mettere Emerson, Lake & Palmer alla quinta posizione, un po’ come il disco dei King Crimson per gli anni ’60, ma alla fine riascoltandomelo il gradimento è cresciuto. Tutte e sei le canzoni meritano (giusto The Three Fates me gusta un po’ meno). Magari può risultare eccessiva, ma la presenza prominente delle tastiere (controcorrente rispetto a molte band) l’ho apprezzata. D’altronde con un esecutore del genere c’è poco da dire.




2) Black Sabbath (1970)

Medaglia d’argento per un altro gruppo storico, i Black Sabbath, tra gli esponenti più importanti nello sviluppo dell’Hard Rock e del Metal.
L’album del quartetto inglese formato da Ozzy Osbourne (voce), Tony Iommi (chitarra), Geezer Butler (basso) e Bill Ward (batteria) si apre con la title track e una sinistra atmosfera evocata dal suono delle campane nel mezzo di un temporale. Già i Black Sabbath ci fanno intuire che le tematiche che andranno ad affrontare non saranno tra le più scanzonate. Proprio come un fulmine arrivano pesanti la chitarra di Iommi e la batteria, con il ritmo che cala facendosi estremamente lento mentre Ozzy comincia a cantare con quel suo stile particolare… che io non apprezzo particolarmente, infatti pur essendo il cantante storico dei BS il confronto vocale con alcuni dei suoi successori neppure si pone. Dio? Gillan? Avete presente no?
Va riconosciuto che comunque ben si adatta allo stile dell’album.
Abbondantemente superata la metà dei 6 minuti totali del brano gli strumenti cominciano a farsi pressanti aaaand… bam! Riff assassino di Iommi e Butler per un finale in crescendo dove c’è spazio per il primo ottimo guitar solo del disco.
La seconda traccia, pare in parte ispirata al personaggio di Gandalf, è The Wizard. Prendete i riff di Iommi e la batteria dell’ultima parte di Black Sabbath, quindi buttateci dentro Ozzy che oltre a cantare suona l’armonica ed otterrete un particolare brano dal passo lento in bilico tra rock e le influenze blues del gruppo.
Behind The Wall Of Sleep ripropone ancora un ottimo affiatamento strumentale: molto bello il riff iniziale, basso che costruisce un sottofondo tutto suo, bell’assolo a inframmezzare il brano e Ward che lo chiude in fading.
Arriviamo a N.I.B. (Nativity In Black? Name In Blood? Butler disse che si trattava di un nomignolo dato a Ward… deluso Centro San Giorgio?) che è non solo la mia canzone preferita del disco ma probabilmente di tutta la produzione Black Sabbath che ho sentito fino ad ora.
Quell’assolo iniziale di Geezer Butler è o non è l’intro di basso più figo di sempre? Ogni volta è godurioso.
Altro azzeccato riff e parte pure Ozzy fino ad un primo brevissimo assolo di Iommi. Chitarra, basso e batteria perfetti sotto il cantato. Circa a metà un secondo assolo, stavolta più lungo e davvero bello. Dopo l’ultimo “My name is Lucifer, please take my hand” ci sta il tempo anche per un terzo ed ultimo assolo di Iommi che duella con Butler fino alla chiusura.
Tra l'altro c'è una cover davvero spettacolosa fatta dai Primus con Ozzy alla voce (tribute album Nativity in Black II)
La breve Evil Woman è una cover degli americani Crow che si mantiene sul livello dei brani precedenti a N.I.B. e contiene un guitar solo più blueseggiante.
Sleeping Village inizia in maniera lenta e un po’ lugubre, con l’ausilio della chitarra acustica e del suono di uno scacciapensieri. Dopo un breve stacco irrompe  prepotente tutta la sezione strumentale, con una serie di cambi di ritmo, in cui è da segnalare il veloce assolo di chitarra con la sezione ritmica in gran spolvero . Il brano si chiude con Ward a pestar duro e un suono che richiama quelli iniziali e prosegue fino a condurci all’interno della canzone successiva, The Warning.
Coverizzando un brano della band del batterista inglese Aynsley Dunbar pubblicato nel 1967, i Sabbath lo plasmano secondo il loro stile e lo espandono sforando i 10 minuti rendendola la più lunga canzone dell’album. Ozzy viene relegato a cantare giusto nei primi e negli ultimissimi minuti, lasciando il palcoscenico al resto della band che, trascinata dal suo menomato chitarrista in stato di grazia, imbastisce questa lunga parte strumentale magari un po’ dispersiva, ma varia e ben distinta in più segmenti. Più che discreto sfoggio delle proprie qualità.
Un breve intro di Ward e l’ennesima sequela di riff spettacolari attendono all’ingresso di Wicked World, l’ultima traccia di Black Sabbath. Ed è una convincentissima chiusura che nei suoi poco meno di 5 minuti riassume quanto sentito nel corso dell’ascolto del disco.
A dispetto della figura di Ozzy, probabilmente elemento che dai più viene associato ai Black Sabbath, chi ne esce come indiscusso protagonista di questo storico debut album è Tony Iommi (Non che gli altri sfigurino, anzi). Che tra l’altro fa sapere: “We just went in the studio and did it in a day, we played our live set and that was it. We actually thought a whole day was quite a long time, then off we went the next day to play for £20 in Switzerland.”…
In una carriera pluridecennale, fra alti e bassi e continui cambi di formazione i Black Sabbath sono ancora in attività ed hanno sfornato 18 album. Ne ho ascoltati solo una manciata, con qualche altro brano sparso qua e là, ma ci tengo a segnalare il loro secondo disco.
Sempre nel 1970, come avevano fatto i Led Zeppelin l’anno precedente, il quartetto di Birmingham pubblica un seguito del suo omonimo primo album e se Black Sabbath è un grandissimo (e seminale) esordio…. Beh Paranoid è, almeno per i miei gusti, pure meglio.
Senza entrare nel dettaglio, un disco che si apre con War Pigs e contiene brani come Paranoid, Iron Man, Rat Salad o Fairies Wear Boots… “Bravo”!




1) Queen (1973)

L’anno il ’73, il posto il cielo artico… oh wait, quella è un’altra storia, fermiamoci all’anno.
E’ infatti nel 1973 che fa il suo debutto sulla scena discografica una delle band più famose/importanti/iconiche della storia del Rock, i britannici Queen. Uno dei miei gruppi preferiti in assoluto, con Freddie Mercury di cui già avevo ampiamente scritto qui. Già questa doverosa premessa potrebbe bastare a spiegare perché il loro disco d’esordia si piazzi in cima alla Top5? Forse, o forse no, dato che se non fosse anche il gran lavoro qual è probabilmente qui ci sarebbe un altro nome.
Già dalla loro opera prima i Queen schierano la storica formazione costituita da Freddie Mercury nelle vesti di vocalist principale, Brian May alle chitarre (e backing vocals), Roger Taylor alla batteria con licenza di cantare occasionalmente anche come voce principale in alcuni brani, e John Deacon come bassista carismatico. Questa la lineup che rimarrà intatta per il resto della carriera dei Queen, fino alla morte di Freddie nel 1991… lasciando stare le operazioni successive di mantenere vivo un progetto in cui neppure Deacon credeva, con “Queen+Paul Rodgers”.
Pensate... nemmeno ELP hanno avuto sempre la stessa formazione, visto che per un periodo i furbacchioni per mantenere inalterata la sigla hanno preso alla batteria Cozy Powell come rimpiazzo di Carl Palmer, che nel frattemp si era unito ad un altro branco di scarsoni per formare gli Asia.
Chiudiamo le divagazioni e via col disco!

Keep Yourself Alive, scelto come primo singolo da parte del gruppo, da il via alle danze con l’ingresso in fila indiana di chitarra, batteria e basso. Quindi parte anche la voce di Mercury, affiancato dal coro dei compagni durante il ritornello. Si tratta di un pezzo rock sotto i 4 minuti dal ritmo veloce che, a differenza dei precedenti primi lavori di Led Zeppelin (da cui sono stati sicuramente influenzati), Cream, Jimi Hendrix o Black Sabbath, non presenta quelle sonorità ancora in parte legate al blues. Piazzato come opener concentra subito l’attenzione grazie all’impatto immediato: Mercury da già un’idea delle sue qualità (tra l’altro dando l’impressione di non sforzarsi neppure troppo), facciamo conoscenza con le armonie vocali e il vasto uso di tracce multiple che caratterizzeranno molto i primi album dei Queen (su cui i 4 si premuravano di far scrivere “No Synthesizers”, la Red Special di May è incisiva pur non essendoci un vero  guitar solo… assolo invece riservato alla batteria di Taylor circa a 2/3 della canzone.
Doing All Right è stata scritta da May quando militava nel suo vecchio gruppo, gli Smile, poi trasformatisi nei Queen. E’ una canzone meno immediata di Keep Yourself Alive, ma che stupisce maggiormente.
L’inizio è quanto di più tranquillo ci si possa attendere, con il pianoforte (in una delle rare occasioni suonato da May) ad accompagnare un Mercury delicatissimo. Anche con l’ingresso degli altri strumenti il clima si mantiene quello di una ballata e Freddie sale leggermente d’intensità. Segue un breve intermezzo acustico che si trasforma, assieme alla crescente potenza della voce, in un quanto mai inaspettato momento di puro hard rock. Altra peculiarità di questi primi Queen saranno i numerosi cambi di tempo… dopo breve infatti si rallenta di nuovo con Freddie che torna ai toni iniziali prima di uno stacco da cui i suoi compagni partono in un’altra mitragliata strumentale, dove spiccano soprattutto l’assolo di May e la potenza di Taylor. Infine il brano si chiude con il piano e un’armonia vocale che riprende le precedenti parti cantate.
La successiva Great King Rat scritta da Mercury con il suo lungo testo sfora i 5 minuti e mezzo, che iniziano con i suoni distorti della chitarra di May per poi compattarsi in una cavalcata scandita dalla batteria su cui la voce avanza senza esitazioni fino al ritornello. Ancora notevole Taylor nella seconda strofa/ritornello. Mercury con uno “Show me” lascia spazio quindi a un assolo di May. Superato nuovamente il ritornello cambiamento di ritmo con un testo dai temi “religiosi”. Silenzioso intermezzo prima che la chitarra faccia ripartire la cavalcata iniziale, quindi un doppio guitar solo. Nella sezione finale ultima riproposizione del ritornello e chiusura con Taylor a picchiare duro in fading. Uno dei brani più riusciti di Queen I.
La fantasy My Fairy King vede per la prima volta Mercury anche in veste di pianista, oltre che un largo utilizzo di vocalizzazioni sovrapposte (come detto i Queen ne faranno una caratteristica peculiare… basta pensare a Bohemian Rhapsody).
Specialmente nelle parti iniziali, oltre a Mercury è da segnalare anche la prova vocale di Roger Taylor autore, immagino, dei vari urli. Dopo uno di questi c’è una bella sezione con dei versi cantati rapidamente da Mercury, un’armonia vocale e un breve momento ritagliato al basso di Deacon che sfocia in un’altra strofa. Qui c’è poi spazio per un quasi intimistico Freddie al piano che conclude il testo della canzone… spazio da cui tra l’altro nascerà il suo nome d’arte derivato da uno stralcio del testo che recita “Mother Mercury Look what they've done to me”.
L’ultimo minuto è strumentale in un crescendo in cui è coinvolto anche il piano.
Liar è il secondo singolo estratto dall’album. Scelta particolare data la durata di oltre 6 minuti della canzone… che è però una delle migliori qui presenti.
Intro affidata a Taylor, seguito poi da una serie di riff. La prima parte del testo vede Mercury cantare e venire fronteggiato dai cori che urlano “Liar”. Tra le altre cose da notare il falsetto di Freddie e un bel giro di basso. E’ quindi il momento per l’assolo di May. Tutta la parte seguente è un susseguirsi di riusciti incastri vocali mentre gli strumenti si prendono il loro spazio, in particolare Deacon che si permette pure un assolo di basso.
Alla 6 della tracklist c’è The Night Comes Down, scritta da Brian May e primo pezzo scritto a formazione stabilizzata. L’inizio guidato dalla chitarra è reso quasi cupo dal gran lavoro di Deacon al basso e crea un’atmosfera particolare in cui si inserisce dopo quasi un minuto Mercury. Carino il ritornello rafforzato dalle backing vocals. Chiusa la parte cantata con il secondo ritornello si scivola lisci fino alla fine con una parte strumentale ancora trascinata dai giri di chitarra e basso, che in una costante accelerazione sembrano fare da ideale punto di partenza per la seguente Modern Times Rock 'n' Roll. Breve e veloce brano scritto e cantato da Roger Taylor, che nel suo minuto e 40 riesce a farci stare un testo più lungo di altri presenti in precedenza e anche un assolo di May. Nulla di eccezionale ma adatta per dare la scossa dopo The Night Comes Down.
Son And Daughter è caratterizzata da un suono piuttosto pesante, non necessariamente più veloce (se si esclude l’accelerata finale), rispetto ad alcuni dei brani precedenti. Quasi sabbathiano mi verrebbe da dire… con la potente voce di Freddie in più.
L’ultima canzone cantata del disco è Jesus, scritta dallo stesso Mercury ci racconta qualche scena della vita di Gesù. La prima metà è dominata dal cantato, che non sarà una delle migliori prove del cantante di Zanzibar ma è comunque un perfetto esempio di qualità espressiva e fraseggio, mentre la seconda metà di Jesus è prettamente strumentale, dal sapore quasi psichedelico, dove svetta la chitarra di May sorretta da un bel lavoro di Taylor alla batteria. Quasi in chiusura ritorna, per l’ultima volta sul disco, la voce di Freddie che va a dissolversi prima della canzone conclusiva di questo spettacolare Queen.
Seven Seas of Rhye...”, il cui titolo si rifà al paese immaginario di cui parla anche My Fairy King, è un breve pezzo strumentale in cui ben si nota il piano suonato da Mercury a cui vanno poi ad aggiungersi I vari strumenti in un vortice quasi confusionario che va affievolendosi in dissolvenza.
L’anno successivo il secondo disco della band, Queen II, si chiuderà con la versione rivista, completa, cantata e più lunga di Seven Seas of Rhye, che si rivelerà il loro primo singolo di successo.



Queen I magari, anzi quasi sicuramente, non è il migliore album del quartetto inglese. E’ ancora per certi versi un prodotto acerbo, dove gli strumenti pur se con ottimi momenti non sono ancora alla massima espressione, senza una vera canzone che svetti sulle altre e anche Freddie Mercury non raggiunge mai le vette che negli album successivi lo rendono il mio cantante preferito all-time. Ciò nonostante lo considero un gran bel lavoro, soprattutto considerando che è un disco d’esordio e che già racchiude parte delle caratteristiche dei primi Queen.
La cosa bella con questo gruppo è che, almeno secondo il sottoscritto, nella quasi ventennale carriera di uscite davvero brutte (escludendo magari l’album colonna sonora di Flash Gordon e Hot Space, che pur contiene Under Pressure) è difficile trovarne. Sugli altri album di piccole e grandi perle se ne trovano davvero un sacco, tra le più famose a quelle quasi sconosciute ai più.


A differenza della Top5 degli anni  ’60 qui avrete notato una piccola particolarità: ho evitato di indicare ad ogni posizione il nome della band e quello dell’album, in quanto per tutte e 5 le posizioni il titolo scelto per il disco corrisponde al nome del gruppo. Non è che si siano sprecati troppo eh?
Giusto una menzione veloce per qualche titolo che avrei potuto inserire ma è rimasto fuori:
  • High Voltage degli australiani AC/DC, la versione internazionale dell’annata 1976, propone per la prima volta il classico sound della band di Angus Young e presenta già alcuni pezzi validi come ”It's a Long Way to the Top” , “T.N.T.” o “The Jack
  • L’omonimo debutto degli inglesi Bad Company (1974) guidati dal già citato Paul Rodgers. Ero davvero indeciso, ma alla fine il non bilanciatissimo livello tra la prima e la seconda parte del disco mi ha fatto propendere per lasciarlo fuori. Gran pezzi come “Can't Get Enough”, “Rock Steady”, “Ready For Love” e la title track.
  • L’ impronunciabile prima uscita dei Lynyrd Skynyrd, che contiene roba come “Simple Man” o “Free Bird”, ma non ho ascoltato abbastanza.
  •  Qualcos’altro di sicuro che al momento non mi sovviene.

E siamo quindi giunti finalmente al capolinea di questo lungherrimo post. Che se credete di averci messo una vita a leggerlo pensate per un attimo a quanto ne ho impiegato io per scriverlo.
Lasciate pure un parere e se volete esprimete le vostre preferenze.
Arrivederci alla prossima.

Nessun commento:

Posta un commento